Bonifacio VIII (1294-1303)

 

STORIA DELLA CHIESA

I PONTEFICI

 

                Dopo una lunga sede va­cante, a motivo della divi­sione delle due famiglie ro­mane, alla fine, dopo due anni e tre mesi, si ebbe un'e­lezione una­nime nella persona di Pietro, eremita di Morrone negli Abruzzi, che prese il nome di Celestino V (1294), ma tenne il pontificato solo cinque mesi: dal 5 luglio 1294  al 13 dicembre successivo quando,  preoccupato dal fatto che molti stavano profittando della sua inesperienza per ottenere indebiti favori dalla curia, Celestino V lesse un documento in cui espose i motivi della sua rinuncia, comandando ai cardinali di fare una nuova elezione;  quindi si ritirò nella sua cella di Castel Nuovo, tornando a vivere l’austera vita eremitica, insieme ad alcuni compagni, sul monte Maiella.

                Dieci giorni dopo i cardinali entrarono in conclave eleggendo papa Benedetto Caetani, già consigliere di Celestino V, che prese il nome di Bonifacio VIII (1294-1303). 

                Fu l'ultimo grande papa del Medio Evo. Uomo di grande ingegno e di notevole capacità amministrativa, dottissimo in diritto, massima preoccupazione  di Bonifacio VIII fu quella di restituire al papato l'antico splendore. Fa da apertura lo sfarzoso corteo per l'incoronazione,  avvenuta il 25 gennaio 1295: il neo eletto pontefice procedette su cavallo bianco, con alle staffe i due vassalli pontifici, Carlo II d'Agiò e Carlo d'Ungheria. "Deus in adiutorium meum intende", fu il motto che Bonifacio scelse per il suo sigillo, quasi ad indicare l'urgenza di un rinnovamento nella Chiesa e, insieme, la coscienza di una immane responsabilità.               

Come primo atto del suo pontificato, dopo aver riportato la sede papale da Napoli a Roma per sottrarre l'istituzione all'influenza di re Carlo II d'Angiò, dichiarò nulle tutte le decisioni assunte dal suo predecessore Celestino V.

Immediatamente dopo, a causa dell'ostilità dei cardinali francesi, ebbe timore che il suo predecessore, Pietro del Morrone, ritornato semplice frate, potesse essere cooptato dai porporati transalpini come antipapa. Per cui si rendeva necessario che la sua persona rientrasse sotto il ferreo controllo del Pontefice. Bonifacio VIII fece pertanto arrestare Celestino V da Carlo II d'Angiò, lo stesso monarca che pochi mesi prima ne aveva sostenuto l'elezione pontificia, e lo rinchiuse nella rocca di Fumone, di proprietà della famiglia Caetani, dove rimase fino alla morte. Nonostante ci siano varie ipotesi (suffragate anche dalla presenza di un ampio foro nel suo cranio) non è certo che la morte di Celestino V sia avvenuta per mano di Bonifacio VIII. Lo stato di detenzione, però, fu voluto dal Caetani.

Eliminato un potenziale antipapa come avrebbe potuto essere l'ex Pontefice, il primo atto politico cui egli dovette adempiere fu la risoluzione della controversia in corso tra gli angioini e gli aragonesi per il possesso della Sicilia; controversia che si protraeva dall'epoca dei "vespri siciliani"; cioè dal 1282.

A Napoli governava Carlo II d'Angiò e in Sicilia Federico d'Aragona, fratello di re Giacomo che, a sua volta, era passato nel 1291 al trono d'Aragona. Il 20 giugno del 1295, spinto dal Papa, che parteggiava per l'angioino avendolo questi aiutato nella cattura del Morrone, Giacomo II sottoscrisse la Pace di Anagni con la quale rinunciava ad ogni diritto sulla Sicilia a favore del Papa. Mentre questi, a sua volta, li trasferiva a Carlo d'Angiò.

Ma la Sicilia si ribellò preferendo come re il suo governatore Federico e non l'angioino. Il Papa, seppur malvolentieri, dovette acconsentire e incoronò Federico nella cattedrale di Palermo il 25 marzo 1296. Questa incoronazione fu la prima amara sconfitta per papa Bonifacio. Questa sconfitta sarà sanzionata successivamente e definitivamente mediante la Pace di Caltabellotta, stipulata nel 1303 tra Roberto d'Angiò, figlio di Carlo II, e Federico, il quale riceveva il titolo di re di Trinacria e, come feudo, la Sicilia. La Pace di Caltabellotta segnò l'affermazione definitiva degli Aragonesi per l'inizio della loro espansione nel Mediterraneo.

                Risoluto ad estirpare, e con mano energica, i molti abusi allora presenti nella Chiesa, il pontefice suscitò vivaci opposizioni. Il primo grande scontro Bonifacio lo ebbe con Filippo il Bello, re di Francia, lo Stato più potente e più compatto di allora.

                Filippo IV, per far fronte alle spese di guerra, aveva imposto delle tasse sui beni del clero, contrariamente alle vecchie prescrizioni del diritto canonico. Nel 1296 il papa, di tutta risposta, emanò la bolla "Clericis laicos" proibendo, sotto pena di scomunica, che gli ecclesiastici dessero doni o contributi di qualsiasi genere, senza il permesso della Sede Apostolica e inibendo ai sovrani e ai loro ufficiali di riscotere tasse e tributi dai beni ecclesiastici. Fu guerra.  Filippo IV passò alle contromisure, vietando l'esportazione di argento e di preziosi dal territorio francese ed espellendo dal regno gli stranieri; nel mirino, i collettori papali e i banchieri italiani incaricati di trasferire i valori alla Camera Apostolica. A questo punto Bonifacio VIII fu costretto a cedere: le parti raggiunsero un sofferto accordo e, come segno della pace conclusa, Bonifacio, nel 1297, canonizzò Luigi IX, avo di Filippo IV.

                Non meno violento il conflitto con la potente famiglia romana dei Colonna, da qualche tempo antagonista dei Caetani: questi, Angioini; i Colonna, filoaragonesi.

                Questa famiglia, che aveva il suo feudo a Palestrina, aveva dato alla Chiesa due cardinali, Iacopo Colonna e suo nipote Pietro, segretamente alleati con i ghibellini  d'Italia e con l'aragonese Federico III di Sicilia, che Bonifacio aveva combattuto e soprattutto amici degli spirituali francescani e dei seguaci di Gioacchino da Fiore insieme ai quali, il 10 maggio 1297, avevano sottoscritto il proclama di Lunghezza -tra i firmatari anche fra Iacopone da Todi- proclama dove veniva contestata la legittimità dell'elezione di Bonifacio VIII e comunque la validità dell'abdicazione di Celestino V, per cui si appellavano a un concilio generale, reclamando l'elezione di un nuovo papa.

                Fu guerra quando Stefano Colonna, conte di Romagna rapinò il tesoro papale. Bonifacio VIII convocò i due cardinali Colonna davanti al suo giudizio e chiese ai colonnesi la consegna dei loro castelli. Costoro invece di obbedire, mossero guerra al pontefice. Di tutta risposta, nel maggio, Bonifacio VIII indisse una crociata contro i Colonna, fece radere al suolo il castello di Palestrina, loro principale fortezza; quindi, con bolla "In excelso throno", depose Iacopo e Pietro dalla dignità Cardinalizia, li scomunicò, ne confiscò i beni e distrusse Palestrina Castel S. Pietro e altri paesi colonnesi, disperdendo i membri dlla famiglia Colonna; alcuni si rifugiarono in Francia presso Filippo il Bello.

                Sono queste le appena trascorse vicende che permettono, tra l’altro, di capire perché il pontefice, subito dopo aver emanato la bolla del giubileo, ne abbia fatta un'altra, per escludere determinati ribelli  dal beneficio delle indulgenze, elargite per il Giubileo 

                Il 1300 fu l’anno della proclamazione del Giubileo. La scadenza secolare, una scadenza simbolica -tredici secoli dalla nascita del Redentore, il Dio fatto uomo- diede a Bonifacio VIII l'occasione per dimostrare che egli teneva le chiavi del regno dei cieli: fu un avvenimento veramente glorioso. Ma non fu decisione nata dalla curia papale.

                Narra il cardinale Stefaneschi nel suo Liber de centesimo (splendido il codice G. 3, dell'Archivio di S. Pietro, ora alla Biblioteca Apostolica Vaticana: nella miniatura del primo foglio il cardinale appare inginocchiato  ai piedi di Maria per offrirle la sua opera devota), che dal giorno di natale 1299 al successivo primo gennaio, "rimase come oc­culto il mistero di quel nuovo perdono". Il primo gennaio 1300 Bonifacio si trovava al Laterano e la giornata passò senza che nulla si notasse di straordinario. Sul far della sera, "come se quel mistero si fosse a poco a poco aperto e svelato ai Romani", corse immediatamente voce che,  qualunque romano avesse visitata la tomba del principe degli apostoli, avrebbe ottenuta, in quel giorno piena e totale indulgenza dei suoi pec­cati e, nei giorni successivi, l'indulgenza di cento anni. Così, quasi te­mendo che col finire della giornata finisse anche la grazia, una folla immensa si accalcò dinanzi la basilica di S. Pietro. Dopo que­sto principio crebbe ogni giorno di più il concorso dei cittadini e dei fore­stieri. C'era la convinzione che l'anno secolare avrebbe portato, come tredici secoli prima, una nuova riconciliazione, la "dilutio peccaminum". 

                Alcuni erano persuasi di lucrare l'indulgenza plenaria, altri un'indulgenza di cento anni; era comunque opinione corrente che Roma avrebbe concesso un grande perdono.

                Ciò durò sino al 4 febbraio, "giorno che a tutto il mondo viene mostrata la venerabile immagine che si suol chiamare Sudario o Veronica", quando pellegrini,  specie stranieri,  assai più del solito e in turbe fitte, continuarono ad attestare al papa la convinzione che s'era dif­fusa sull'acquisto dell'indulgenza. Così riferiscono molti cronisti del tempo, come Giovanni Villani di Firenze, Guglielmo Ventura di Asti ecc.

                Da parte sua, lo Stefaneschi attesta che sarebbe venuto, tra gli altri, a Roma anche un vecchio, più che centenario, che, chiamato alla presenza del pontefice, testimoniò come cento anni prima, suo pa­dre si era recato alla Città Santa per l'indulgenza e gli aveva consi­gliato di fare altrettanto se gli fosse toccata la ventura di giungere al nuovo anno secolare. Personalmente allo Stefaneschi il vegliardo aggiunse "che in ciascun giorno di quell'anno centesimo si poteva lucrare l'indulgenza di cento anni per la quale era venuto appunto pellegrino".

                E poiché giorno dopo giorno la folla, che faceva ressa per recarsi a pregare sulla tomba dell'Apostolo, aumentava sem­pre di più, il papa fece esaminate le antiche memorie, ma nulla ritrovò in propo­sito.

                La cosa -annota lo Stefaneschi- era più opinione che verità e frattanto, mentre il pontefice dimorava nel Patriarchio Lateranense, nacque il centesimo, termine che sta per Giubileo.

                A Bonifacio VIII indubbiamente  bastò il sensus fidelium: così il 22 febbraio 1300, giorno della festività della cattedra di S. Pietro, Bonifacio VIII pubblicò una bolla che cominciava appunto così: "c'è una relazione degna di fede degli antichi che a coloro che si recano nella venerabile basilica del primo degli apostoli in Roma sono state concesse ampie remissioni e indulgenze dei peccati"; e poiché ciò rispondeva alla comune opinione dei fedeli il pontefice decise per l'indulgenza plenaria.

                Bonifacio elargì l’indulgenza a tutti coloro che, durante l'anno (a cominciare dal Natale precedente, dando così alla bolla anche un valore retroattivo) avessero pregato alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo per trenta giorni, se erano romani, per quindici,  se erano forestieri, purchè confessi e pentiti delle loro colpe.

                L'annuncio avvenne dall'ambone  della basilica Vaticana, "velato di drappi di seta e d'oro": così come lo vediamo nell'affresco della basilica Lateranense, lacerto di una complessa storia riprodotta nei dettagli da Giotto, sulla loggia esterna della basilicadi S. Giovanni in Laterano. Vi è raffigurato Bonifacio VIII, con due personaggi ai suoi fianchi, uno dei quali legge la bolla di indizione. A commissionare l'opera fu il cardinal Stefaneschi lo stesso che, sempre a ricordo del Giubileo, commissionò al medesimo Giotto di dipingere sulla controfacciata della basilica costantiniana di S. Pietro la cosiddetta Navicella. Vi era rappresentato l'episodio accaduto sul lago di Tiberiade, di cui parla l'evangelista Matteo: esattamente il momento in cui Cristo afferra per la mano Pietro che sta per affogare e, salvandolo, lo rimprovera per aver dubitato di lui, scena proabilmente corredata da scritte scritte messe in bocca a Pietro ("Domine salvum me fac", Mt 14, 30); o a Cristo ("Modice fidei, quare dubitasti", Mt 14, 31), opera perduta ma che conosciamo da un'incisione di Parri Spinelli. Il tema fu più volte replicato nella seconda metà del sec. XV; di notevole interesse la tavola commissionata dalle religiose del monastero aperto di Torre degli Specchi a Roma ed eseguita intorno al 1485 da Antoniazzo Romano, ora ad Avignone.

                 Autori materiali dell'‘Antiquorum habet’, la bolla di indizione del giubileo, furono Iacopo Stefaneschi, diacono di S. Giorgio in Velabro, il quale poco dopo la chiusura del giubileo scrisse il De centesimo seu Iubileo anno liber  e maestro Silvestro di Adria, scrittore della cancelleria; mentre il card. Giovanni Le Moine, illustre canonista, ne fece un commento.

                La bolla, di cui furono fatte varie copie spedite a quanti erano in comunione con la Chiesa insieme a una circolare esplicativa nella quale furono aggiunti tre versi leonini, cioè a rima baciata, quasi un ritornello per i predicatori e per i pellegrini in marcia verso Roma.

                Annus centenus - Romae semper est iubilenus / Crimina laxantur - cui poenitet ista donantur / Hoc declaravit - Bonifacius et roboravit".

                che, tradotto, significa: ogni anno centenario è sempre un anno giubilare a Roma. Per detta circostanza le colpe vengono lavate e a chi si pente viene dato il perdono. Così ha stabilito papa Bonifacio e lo ha convalidato con la sua autorità. Copie di questo ritornello furono incise su pietra e poste lungo le strade del pellegrinaggio romeo.

                Per l'indirizzo generale, per la formula di perpetuità -la concessione non ha un valore circoscritto nel tempo- e per altre sue parti, la bolla rientra nella tipologia di quelle di indulgenza, nel passato elargite alla basilica di S. Pietro: un'indulgenza giubilare,  cioè "plenaria",  data secondo la forma consueta e relative sanzioni, allo scopo di garantire l'osservanza della disposizione. E tuttavia nell'arenga o preambolo, dove si esprime la motivazione ideale, la ragione  di carattere universale della promulgazione del Giubileo, il pontefice ricorda il suo "dovere di ufficio" e la missione salvifica della Chiesa nello spazio e nel tempo.

                Quasi a rimarcarne la perpetuità, fu disposto che il documento fosse inciso su una lastra marmorea e apposto nell'atrio della basilica di S. Pietro in Vaticano, dove tuttora si trova  (presso la Porta Santa, a sinistra, in alto, incorniciata da marmi preziosi), una delle poche memorie superstiti dell'antica basilica costantiniana, dove  il marmo era stato posto tra la porta bronzea e quella argentea.

                Quanto allo spirito del documento, di fronte alla visione escatologica dominante di fine secolo e che aveva spinto tanti fedeli a venire a Roma, prima ancora che fosse stato indetto il giubileo, il pontefice risponde con un invito ad incrementare la devozione verso il Principe degli apostoli, cui tradizionalmente era legato il pellegrinaggio a Roma.

                E' l'atteggiamento penitente dei fedeli che muove il papa a concedere "non solo una piena e più ampia, bensì una pienissima perdonanza di tutti i loro peccati".

                Quanto alle modalità: due erano le condizioni per l'acquisto dell'indulgenza: 1 - il pentimento e la confessione, perché la grazia possa operare; 2 - la visita alle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo. La prima condizione ricorre in tutte le elargizioni di indulgenze. La seconda era una novità, suggerita forse della liturgia che da tempo aveva associato i due fondatori della Chiesa di Roma nell'unica solenne commemorazione del 29 giugno.

                Da qui la disposizione che i romei, per lucrare il giubileo, oltre la basilica di S. Pietro, visitino anche quella di  San Paolo con queste modalità: "se si tratta di Romani per trenta giorni continui o saltuari e almeno una volta al giorno, se invece si tratta di pellegrini  o di stranieri nello stesso modo per quindici giorni". 

                A quanti si erano sottoposti a detta disciplina il pontefice, in forza "del potere delle chiavi", cioè dell'autorità che gli viene da Cristo, in quanto successore di Pietro,  concedeva, alle solite  condizioni -cioè  pentiti e confessati- il perdono della pena dovuta ai peccati, non riguardava pertanto i peccati i quali si rimettono con il sacramento della confessione.

                Nello stesso giorno in cui fu letta, in S. Pietro, la bolla giubilare, fu promulgata anche la bolla "Nuper per alios", con la quale venivano esclusi dal beneficio dell'indulgenza plenaria chi avesse avuto rapporti commerciali con i saraceni -i quali nel 1291 avevano conquistato Acri, inibendo così l'accesso dei cristiani ai Luoghi Santi- accomunati agli scomunicati Colonnesi, a Federico d'Aragona e ai suoi fautori siciliani.

                Cominciò allora la grande romeria. La folla che accorse a Roma fu grandissima. Si mossero verso la Città Eterna pellegrini da tutte le più lontane regioni d'Europa, dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Spagna, dall'Ungheria, dalla Germania.

                Tenuto conto della data di emananzione della bolla -22 febbraio 1300- e dei tempi di percorrenza -nel Medioevo da Parigi a Roma s'impiega­vano normalmente almeno cinquanta giorni- ci si chiede come mai le fonti ci attestano che, fin dall'inizio dell'anno, l'afflusso normale dei pellegrini aumentò notevolmente. Se ciò fosse stato determinato solo dalla diffusione della bolla papale sarebbero occorsi da uno a quattro mesi prima che i pellegrini d'Italia e d'Europa potessero giungere a Roma. Plausibile è l'ipotesi che a spingere tanta gente, a mettersi in cammino, sia stata l'attesa escatologica diffusasi a seguito della predicazione di Gioacchino da Fiore e dei suoi interpreti. Sin dal 1260 si era andata formando la convinzione che, da un momento all'altro, la Chiesa sarebbe entrata nella "terza età" quella dello spirito. Così giorno dopo giorno si fece sempre più pressante il bisogno di perdono. L'attesa rigenerazione avrebbe ricalcato quella sperimentata dall'imperatore Costantino, al momento di immergersi nel fonte battesimale. Nozione questa che sarà ripresa nella bolla di indizione del secondo giubileo, quello del 1350.

                Bisognosi di salvezza i pellegrini affluivano a Roma, per avere la sicurezza della salvezza. Una fiumana di persone che giornalmente  si spostava dalla basilica di S. Pietro a quella di S. Paolo e viceversa. Ogni venerdì, poi e nelle solennità, veniva esposta l'immagine della Veronica.

                Stando al cronista Giovanni Villani, oltre 200.000 al giorno erano i pellegrini non romani che si avvicendavano nella visita alle due basiliche. Vera o falsa l'informazione, indubbiamente  dovette grandemente impressionare la fiumana di gente che, diretta a Roma, invase le strade d'Italia. Si legge negli Annales Colmarienses: "fu fatto così gran concorso in Roma che assai spesso in un giorno si ebbe un movimento di trentamila romei entrati e trentamila usciti". Vi erano rappresentanti di tutte le età e di tutte le categorie, per lo più erano poveri; nessun re tuttavia si mosse per venire a lucrare il giubileo. In compenso giunsero fedeli non solo dalle città, ma anche da villaggi sperduti, come si evince dai protocolli notarili superstiti dove non è difficile incontrare testamenti dettati da modesti pellegrini, prima di intraprendere la romeria.

                Nonostante l'eccezionale movimento di pellegrini, per le provvidenze del papa, non mancarono le vettova­glie e non si lamentarono disordini.

                Le offerte dei pellegrini furono abbondanti e il papa se ne servì per il culto e l'ufficiatura delle basiliche.

                L'anno giubilare terminò il 24 dicembre del 1300, ultimo giorno dell'anno,  secondo l'usanza della curia romana (stile della natività). Il giorno dopo, inizio del nuovo anno, il pontefice con una "gratia non bullata" concesse ai pellegrini  ancora presenti in Roma, o impediti durante il viaggio, o morti prima di aver completato le visite alle basiliche, un'ampia indulgenza (concessione "Ad Honorem Dei”).

                Fu veramente un anno di grazia. Uno dei frutti del giubileo fu la pace che regnò in Italia in quell'anno, un'eccezione per quei tempi travagliati da lotte fratricide.

 

Senz'altro notevole fu l'afflusso di danaro ma non ricevette l'omaggio dei Sovrani d'Europa (fu per lui una grossa delusione). Queste assenze stavano a significare che la sua aspirazione di riunire nelle sue mani sia il potere spirituale che quello temporale era soltanto una illusione.

 

I nuovi contrasti con Filippo IV di Francia

Questa stessa aspirazione animava, però, anche il Sovrano francese il quale, a tal proposito, aveva stretto alleanza nel 1299 con il nuovo re di Germania Alberto I d'Asburgo, accusato dal Papa di aver fatto assassinare il suo predecessore Adolfo di Nassau. Questa alleanza contrastava con l'aspirazione del Papa che intendeva sottrarre la Chiesa francese dal controllo del Re. Bonifacio VIII invitò allora il nuovo Re di Germania a comparire alla sua presenza in Roma per discolparsi dall'accusa di assassinio. Questa comparizione non avvenne mai. Anzi il Re di Francia, interpretando l'ingiunzione del Papa verso Alberto d'Asburgo come un affronto verso la sua persona, accentuò ancor più la sua posizione anticlericale mediante la confisca di tutti i beni della Chiesa, provocando un nuovo conflitto con il Papa.

Questo nuovo conflitto si aprì ufficialmente il 4 dicembre 1301 allorquando Bonifacio VIII emanò la bolla Salvator Mundi, mediante la quale abolì tutti i privilegi che Egli aveva concesso a re Filippo allorquando lo aveva autorizzato a riscuotere le imposte agli ecclesiastici anche senza il consenso papale.

Il giorno successivo, attraverso la bolla Ausculta fili, convocò l'episcopato francese e lo stesso Re ad un Concilio, da tenersi a Roma l'anno seguente, al fine di definire una volta e per sempre i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, facendo intendere, a chiare lettere, che il papa era l'autorità suprema, cui dovevano sottomettersi anche i Sovrani, senza eccezione alcuna; e che solo al papa tutti dovevano rendere conto dei propri atti, Sovrani compresi.

Questo atteggiamento eccessivamente autoritario e dispotico del Pontefice, manifestato nelle due bolle del 4 e 5 dicembre 1301, provocò la immediata reazione di Filippo IV, il quale fece divulgare in Francia una sintesi delle due bolle, alquanto manipolata e non perfettamente conforme alla linea espressa dal pontefice, nel senso che ne peggiorava il contenuto. Ciò per raccogliere maggiori consensi a suo favore ed aumentare l'ostilità verso il Papa.

Lo scopo che si era prefisso il Re fu raggiunto quando, nel corso degli Stati Generali, riuniti a Parigi da Filippo nell'aprile del 1302, Egli ottenne l'approvazione dell'Assemblea la quale si concretizzò con la stesura di una lettera indirizzata al Papa, approvata all'unanimità, nella quale veniva stigmatizzata e respinta la posizione altamente ingiuriosa del Pontefice verso il Re. Contemporaneamente vi fu la proibizione da parte del Re ai vescovi francesi di recarsi a Roma per il concilio.

Nel corso del Concilio, il 18 novembre 1302, Bonifacio VIII emanò la ben nota bolla Unam Sanctam, nella quale veniva ribadito dogmaticamente il seguente concetto: «…nella potestà della Chiesa sono distinte due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa, quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote……». Ciò stava a significare la supremazia del potere spirituale su quello temporale (pena la scomunica in caso di ribellione).

La reazione di Filippo IV fu estremamente determinata e decisa anche questa volta. Il suo obiettivo, stavolta, era quello di mettere sotto processo il Papa, invalidarne l'elezione, accusarlo di eresia e simonia e procedere alla sua deposizione. In ciò gli ritornò molto utile le testimonianze dei Colonna che erano stati scomunicati da papa Bonifacio e si trovavano ancora sotto la sua protezione. La decisione di processare il Papa fu adottata da Filippo nel corso di una riunione del Consiglio di Stato da lui convocata al Louvre il 12 marzo 1303. Occorreva però la presenza del Pontefice al processo. A tal fine Egli incaricò il Consigliere di Stato Guglielmo di Nogaret di catturare il Papa e condurlo a Parigi.

Il Pontefice, venuto a conoscenza delle manovre del Re, tentò di correre ai ripari. Prima inviando una lettera di scomunica al Sovrano, la qual cosa non sortì effetto alcuno. Poi cercando di guadagnare l'amicizia del re di Germania Alberto I d'Asburgo, sottraendolo all'alleanza con il Re di Francia. Convocò a tal fine un Concistoro per il 30 aprile del 1303 nel quale lo riconobbe ufficialmente re di Germania, nonché Sovrano di tutti i Sovrani, con la promessa della incoronazione imperiale in un futuro alquanto prossimo. Tutto ciò in cambio della difesa della persona del Papa contro tutti i suoi avversari. Promessa che non sarebbe mai stata mantenuta.

Venuto a conoscenza che Alberto d'Asburgo era stato riconosciuto dal Papa re di Germania, e temendo di averne perso l'alleanza, re Filippo cercò di accelerare i tempi per la messa in stato di accusa del Papa, convocando una nuova Assemblea degli Stati Generali, al Louvre, nel mese di giugno, con lo scopo di avviare una istruttoria che preparasse il processo al Pontefice.

Poiché il Consigliere di Stato Guglielmo di Nogaret era assente in quanto trovavasi in missione verso Roma, la pubblica accusa fu affidata ad un altro Consigliere di Stato, Guglielmo di Plasian.

Numerose furono le accuse formulate verso il Caetani. Innanzi tutto quella di aver fatto assassinare il suo predecessore Pietro da Morrone, già papa Celestino V. Fu accusato poi di negare l'immortalità dell'anima e di aver autorizzato alcuni sacerdoti alla violazione del segreto confessionale. Fu accusato, infine, di simonia e sodomia. Sulla base di queste infamanti accuse, il Re propose di convocare un Concilio per la destituzione del Pontefice e la sua proposta fu approvata dalla quasi totalità del clero francese.

Papa Bonifacio, messo al corrente di questi ultimi avvenimenti, preparò una nuova bolla di scomunica contro il Re di Francia, la Super Petri solio, che non fece in tempo a promulgare in quanto il Nogaret, insieme a tutta la famiglia Colonna, capeggiata da Sciarra Colonna, organizzò una congiura contro il Papa cui aderirono una gran parte della borghesia di Anagni e una gran parte del Sacro Collegio dei Cardinali.

All'inizio di settembre del 1303 il Nogaret e Sciarra Colonna riuscirono a catturare il Papa dopo un assalto al palazzo pontificio di Anagni e per tre giorni il Papa restò nelle mani dei due congiurati che non risparmiarono ingiurie alla persona del Pontefice. Le numerose ingiurie inferte al Papa, unitamente al contrasto tra il Nogaret e il Colonna sul destino del Caetani, il primo lo voleva infatti prigioniero a Parigi, il secondo lo voleva morto, indussero la città di Anagni a rivoltarsi contro i congiurati e a prendere le difese del loro Papa. Vi fu pertanto un capovolgimento di fronte della borghesia di Anagni che mise in fuga i congiurati e liberò il Papa, guadagnandosi la sua benedizione ed il suo perdono.

Rientrò a Roma il 25 settembre sotto la protezione degli Orsini. Aveva, però, perduto l'immagine del grande e potente Pontefice che si era illuso di essere ed era fiaccato anche nel fisico per le molte sofferenze dovute alla calcolosi renale che lo affliggeva da anni. Morì l'11 ottobre del 1303 e fu sepolto nella Basilica di San Pietro, nella Cappella costruita apposta per lui da Arnolfo di Cambio. Attualmente non vi è traccia alcuna di tale opera in quanto distrutta in occasione della edificazione della nuova Basilica avvenuta per mano del Bramante prima e di Michelangelo poi. Le sue spoglie, invece, furono sistemate nelle grotte vaticane dove si trovano tuttora.

 

Il processo di Filippo il Bello contro Bonifacio VIII dopo la sua morte (1303-1313)

Filippo il Bello intentò un processo contro Bonifacio VIII otto mesi prima della morte del pontefice; fra le molte accuse, evidenti furono le pratiche magiche cui Benedetto Caetani sarebbe ricorso prima e durante il suo pontificato. Un testimone, della famiglia del pontefice, dichiarò che il giorno in cui fu eletto Celestino V, sentì il cardinale urlare dalla sua stanza: "Perché mi inganni, perché mi inganni? Io mi do totalmente a voi e voi mi avete promesso di eleggermi papa, ma ora ne è stato fatto un altro". Il testimone sentì la risposta da una voce di fanciullo: "Perché ti turbi? Stando le cose così come sono, non potrai essere papa. Occorre infatti che il tuo papato si realizzi grazie a noi, in modo che tu non sia un vero papa legittimo. Questo lo potremo fare tra breve: abbi fiducia". I testimoni al processo narrano anche che Bonifacio VIII possedeva un anello potente appartenuto a Manfredi, figlio dell'imperatore Federico II, il quale aveva un'ombra «talvolta luccicante, talvolta no» inoltre assumeva sempre nuove forme umane ed animalesche. Questo anello aveva una natura tanto curiosa che Carlo II D'Angiò, re di Sicilia, durante un'udienza col papa lo osservò con tale insistenza da provocare la reazione del pontefice che gli avrebbe chiesto: «Perché guardi il mio anello così intensamente? Vuoi averlo?» Il re avrebbe risposto in francese: «No, non lo voglio, tenetevelo per voi il vostro diavolo». Molti testimoni infatti durante il processo, assicurarono che gli alloggi papali erano frequentati assiduamente da necromanti ed alchimisti. Queste testimonianze vengono inoltre confermate dal grande poeta francescano del XIII secolo, Jacopone da Todi che apostrofava così l'odiato pontefice:

  « Pensavi per augurio/la vita perlongare
anno, dì ne ora
omo non pò sperare
Vedem per lo peccato
la vita stermanare,
la morte appropinquare
quann'om pensa gaudere »
   

. La frase «Pensavi per augurio/la vita perlongare» merita di essere presa alla lettera: la parola "augurio" indica le pratiche magiche alle quali Bonifacio VIII si sottoponeva per salvarsi dalla morte corporale.

Considerazioni sulla sua condotta

Fu l'ultimo papa a concepire la Chiesa come una istituzione al di sopra delle genti e degli Stati, tutti ad essa sottomessi. A lui si deve la fondazione dell'Università "La Sapienza" di Roma e la costruzione del Duomo di Orvieto e di Perugia.

Bonifacio VIII fu un papa dedito al culto della sua immagine. Si fece ritrarre, ancora in vita, in tantissime immagini; cosa che nessun Pontefice prima di lui aveva mai fatto. Statue in marmo e bronzo raffiguranti la sua persona si trovano a Firenze, Orvieto, Bologna, nel Laterano e ad Anagni. Persino Giotto lo immortalò in un celebre affresco nell'atto di leggere, dalla loggia di San Giovanni in Laterano, la bolla con la quale proclamava il Giubileo dell'anno 1300.

Benedetto Caetani fu un personaggio estremamente controverso che visse in un periodo di transizione. Diversi sono gli storici che lo giudicano un personaggio cinico e dispotico, gran peccatore, avido di ricchezze e di potere. Diversi segni fanno supporre che fosse superstizioso tant'è che usava, ad esempio, coltelli aventi per manico corna di serpente e portava al dito un anello appartenuto a re Manfredi di Svevia. La leggenda popolare sosteneva addirittura che avesse strappato personalmente tale anello dal cadavere del Re.

Si dice anche che nel delirio dell'agonia, sul letto di morte, abbia continuato a lanciare anatemi, bestemmie, minacce e maledizioni contro tutto e tutti.

È molto noto per le citazioni del vescovo Traversaro in cui esprimeva tutto il suo odio verso il suddetto papa. Queste citazioni possono essere trovate nel celeberrimo Codex Paulinus, scritto da un ignoto autore di nome Paoli.